Mapperò

NON SI DICE

Vivere all’istante

Dovremmo vivere all’istante,

con l’istinto degli animali,

perché de bestie ce ne son tante,

ma sempre meno persone leali.

 

Dovremmo vivere all’istante,

come un amore appena nato.

Perché un vivere costante,

e’ gia un vivere sbagliato.

 

Dovremmo vivere all’istante,

senza pensare alle conseguenze.

Come un pescatore amante,

che getta in mare tutte le lenze.

 

Dovremmo vivere ricordando che tutto può  accadere,

e che anche sulla montagna più alta,

il mare si può ancora vedere.

 

Dovremmo vivere sapendo che tutto può durare,

ma non avendone la certezza,

dovremmo vivere fregandocene, di come potrà andare.

 

vivere all'istante

Quasi trent’anni

Il 27 Maggio è uscito il mio primo romanzo, Quasi trent’anni, edito da Scatole Parlanti. Potete trovarlo in tutte le librerie d’Italia, ordinandolo tramite Direct book. Online lo trovate ai seguenti link:

Amazon:https://www.amazon.it/Quasi-trentanni-Giancarlo-Chiarucci/dp/8832810255

Casa editrice: http://www.scatoleparlanti.it/prodotto/quasi-trentanni/

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Gregorio è un ragazzo che oscilla tra la spensieratezza della gioventù e il consapevole realismo di dover affrontare un cambiamento interiore. Il processo di maturazione è stravolto dalla prima grande storia d’amore, quella capace di mettere in discussione l’essenza del protagonista e riempirgli la vita.

L’incomparabile bellezza degli scorci di Roma e l’incanto del mare, come fuga dalla realtà, diventano gli scenari della sua evoluzione, tesa tra un polo che lo avvicina alla felicità e un altro che lo spinge verso incertezze e i soliti, vecchi errori.

Un mosaico tenuto insieme dalle amicizie storiche, dove la mancanza di alcuni tasselli viene colmata dall’esperienza di sagaci ristoratori, burberi proprietari di birrerie e instancabili viaggiatori dell’introspezione. Pronti a guidare una generazione che, lasciata preda dei propri vizi, con coraggio affronta le insicurezze, supera i limiti e trova la propria strada.

Roma – Genoa

Finirà così, con lo stadio emozionato,

col cuore non pronto,

pe’ salutatte e ripia fiato.

 

Finirà co ‘n applauso,

che farà er giro der monno,

tu saluterai dal campo,

noi increduli, se guarderemo attorno.

 

Saluteremo in quell’istante,

la nostra gioventù,

me convincerò de famme grande,

mo che tu non giochi più.

 

Sarà impossibile da spiega’,

a chi nun t’ha mai avuto.

A chi oggi ce guarda,

e può solo resta’ muto.

 

Sarà come deve esse,

sarà come chi non sbaglia,

noi a di’ Grazie Capitano,

gli altri a chiedete la maglia.

 

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C’è in più

C’è qualcosa di più de ‘na rivoluzione?

il primo sasso lanciato con passione.

Qualcosa de più pure de ‘na bella canzone?

il coraggio de racconta’ l’emozione.

 

C’è qualcosa de più alto del successo?

la speranza che c’hai messo.

Qualcosa de più alto de resta’ te stesso?

la paura con cui l’hai promesso.

 

C’è pure qualcosa  più grande della vita?

Trovarsi in ginocchio, e di’ che non è finita.

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Referendum Costituzionale

In questo periodo dell’anno, siamo soliti chiederci cosa fare a capodanno. Se spendere il doppio per una cosa che, dopo una settimana, pagheremo la metà; se starsene nella propria città, o magari rimediare una festa carina, non troppo lontana. Come i precedenti anni, quest’anno non so ancora cosa fare, ma questa volta ho una scusa più che valida: ho dovuto pensare a cosa farò al referendum. Giorni, settimane e mesi di dubbi esistenziali e monologhi televisivi, venti di cambiamento e promesse riproposte (come se una promessa riproposta non fosse già stata tradita), verità interpretate, bugie ostentate, discussioni, accuse, insulti e qualsiasi cosa venisse in mente, purché fosse un tentativo, l’estremo sforzo di guadagnare anche solo un consenso in più. Risultato: confusione. Per questo mi sono messo a tavolino, ho letto la riforma, ho letto i pareri contrari e favorevoli, senza ascoltarne le voci. Quelle no, quelle proprio non ce l’ho fatta. Le voci ingannano, confondono. Una frase pronunciata bene, affascina anche se è sbagliata. Meglio leggere. Sempre.

I principali obiettivi della riforma, secondo quanto difeso dai suoi sostenitori, sono: diminuire il numero dei parlamentari, accelerare l’iter legislativo, diminuire i costi della politica, introdurre una legge elettorale che garantisca la governabilità e risolvere le infinite contese Stato-Regioni. Per farlo si propone di ridurre il numero di senatori da 315 a 100, levando loro l’indennità, rendere di esclusiva competenza della Camera dei Deputati la maggior parte delle materie, anche quelle solitamente riservate alla Regioni e proporre una legge elettorale che, memore della sentenza 1/2014 della Corte Costituzionale, eviti i principi di incostituzionalità e garantisca la governabilità del Paese.

Leggendo gli obiettivi, gagliardamente pronunciati, da splendide voci nate per incantare, senza preoccuparsi anche di informare, sarebbe da folli puntare i piedi, in difesa di una Costituzione, che non troppo tempo fa qualcuno diceva essere “la più bella del mondo”.

Eppure la magagna, se la cerchi, alla fine la trovi. Neanche cercando troppo, in fin dei conti. Perché conti alla mano, il Senato, nel 2016, spenderà per il proprio funzionamento circa 540 milioni, la riforma ne farà risparmiare 48 in totale, al netto delle tasse che non sarebbero più versate dai senatori. Per capirci, lo stesso costo di un f-35, appena il doppio del costo annuo dell’aereo presidenziale di Renzi. Sempre per capirci, sarebbe bastato un taglio del 10% sugli stipendi dei parlamentari per ottenere la stessa cifra. I senatori inoltre, non percepiranno indennità -in quanto già la percepiscono dalle mansioni di consigliere regionale o sindaco- ma un rimborso spese sì, che servirà a coprire spese di alloggio, vitto, trasporti, portaborse e qualsivoglia necessità relativa allo svolgimento del proprio doppio incarico. I senatori saranno nominati, non più eletti, tutti con l’immunità. Non avranno vincolo di mandato, il che significa che per quanto la si voglia fare passare come la Camera delle Regioni (stile Bundesrat tedesco), il senatore non è obbligato a tenere la posizione decisa in consiglio regionale: terrà quella che vuole, probabilmente quella del proprio partito.

L’iter legislativo non è vero che si velocizza.

Ben 22 materie dovranno obbligatoriamente essere discusse dal Senato; le restanti invece, possono essere ugualmente discusse dal Senato, con la richiesta di appena 1/3 dei senatori. Sarà la Camera dei Deputati poi a decidere se ignorare le modifiche (se riguardano leggi di bilancio o leggi di esclusiva regionale, dovrà farlo con maggioranza assoluta) o accettarle. Inoltre, da quelli che erano 2 iter legislativi, se ne passa ad un numero imprecisato che varia dai 7 ai 10. Non si faranno leggi più veloci, ma leggi meno controllate. Anche perché il problema dell’Italia non è, come si vuol far credere, la lentezza dell’iter legislativo : l’Ufficio studi del Senato ha calcolato che occorrono in media 53 giorni per una legge ordinaria; 46 per un decreto e 88 giorni per una legge finanziaria. Il lodo Alfano nel 2008 passò in 25 giorni, quello Schifani nel 2003 passò in 69 giorni, il Salva-Italia di Monti e Fornero addirittura in 16 giorni, mentre, sembra assurdo, la Legge Li Gotti sulla corruzione passò in 1456 giorni; quella Centaro sull’usura ed estorsione, in 1357 giorni. Davvero il problema è l’iter legislativo?

Riguardo al rapporto Stato-Regioni, ci sarà un accentramento totale del potere nelle mani del Governo. Infatti, terminerà la legislazione concorrente, e seppur le regioni manterranno l’esclusività su diverse materie, il Governo, con la “clausola di supremazia statale”, si avvale il diritto di decidere su queste materie, che dovrebbero essere di esclusiva competenza regionale. In questo modo si allontanerà, ancor di più, il centro decisionale dal territorio. Sempre più decisioni verrano prese lontane, da dove le relative conseguenze accadranno. Si toglierà potere alla province, che non verranno abolite, ma solo private del riconoscimento costituzionale. Senza soffermarsi sul fatto che, a mio modo di vedere, le Province dovrebbero essere il vero punto di raccordo tra enti territoriali e Stato, in quanto più vicine al territorio delle Regioni e precedenti storicamente, la riforma creerà ancora più contenziosi, in quanto le Regioni non potranno far fronte autonomamente e rapidamente a quei problemi che, lo Stato, troppo lontano e indaffarato, non sarà in grado neanche di comprendere. Come se un tuo amico dopo aver bevuto troppo, ti chiedi di aiutarlo, e tu, per dargli una mano, prendi la macchina e te ne vai. Ma che davvero?!

Per terminare occorre parlare della nuova legge elettorale: l’Italicum.

La storia nasce dalla sentenza 1/2014 della Corte Costituzionale, che sanciva l’incostituzionalità della legge elettorale Calderoli (Porcellum), per due punti: le liste bloccate, con cui si negava al cittadino il diritto di scegliere i propri rappresentati e il premio di maggioranza, che non fissava una soglia minima per ottenerlo.  Bene! Con l’Italicum, la soglia di sbarramento per il premio di maggioranza è del 40%, ciò significa che se una lista ottiene il 40% si prende il premio, altrimenti si andrà al ballottaggio, dove questo sbarramento decade. In questo periodo storico, nessun partito può ottenere il 40% al primo turno, perciò ci sarà un ballottaggio, dove chi vince, anche solo prendendo un voto in più dell’avversario, otterrà uno spropositato numero di seggi, senza la soglia minima di voti richiesta dalla sentenza della Corte Costituzionale. Non c’è proporzionalità tra voti effettivi e seggi assegnati. Non è questione di governabilità, ma di rappresentanza, soprattutto per un altro motivo: l’Italia verrà diviso in 100 collegi, ognuno dei quali nominerà tra i 3 e i 9 deputati. Tutto ciò avviene con delle liste, sulle quali è possibile dare due preferenze (se di genere diverso). Questo basterebbe ad eliminare la fastidiosa questione dell’incostituzionalità. La realtà dei fatti, però, come spesso accade, è un’altra. Nessuna di queste preferenze verrà eletta, se non quella del partito vincitore, che, vincendo, avrà a disposizione più seggi all’interno di un collegio e quindi potrà assegnarli ai candidati con più preferenze. Gli altri partiti otterranno solo un seggio, che è già stato affidato al capolista bloccato, scelto unicamente dal partito, il quale, per essere proprio sicuro di ottenere la poltrona da deputato, può essere candidato in 10 diversi collegi contemporaneamente. I senatori Pd Federico Fornaro e Carlo Pegorer, hanno calcolato quanti capilista, nominati dai soli vertici dei partiti, andranno alla Camera all’insaputa di un elettore che crede di aver votato con una preferenza: il 60,8%, cioè 375 su 630. Ai quali si aggiungeranno i 100 senatori nominati dai consigli regionali. Tirando le somme avremo 474 parlamentari nominati e solo 242 deputati eletti. Raggirando quindi, per la seconda volta, la sentenza della Corte Costituzionale. A chi risponderanno questi parlamentari? Maledetta la malizia, che insinua il dubbio. Però, siccome in ogni mestiere, ognuno risponde al proprio datore di lavoro, questi nuovi parlamentari risponderanno alle necessità di un popolo che non l’ha votati, e al quale non deve nulla? O alla/e persona/e che hanno permesso loro l’ingresso nel tempio democratico? È il principio dell’accountability, un altro di quei paroloni fastidiosi utilizzati per sembrare informati, ma che in realtà descrive semplicemente il principio per cui, un delegato, ha la responsabilità di rispondere del proprio operato al delegante, ovvero a quello che una volta era l’elettorato, il popolo. Pure se pecorone.  

Si cambierà la Costituzione, in peggio. Come tra l’altro lasciano intendere i suoi sostenitori, quando dicono di essere consapevoli che non sia la migliore riforma, ma è già qualcosa. Sarebbe come andare al proprio matrimonio, dicendo al prete : “Sì, non è che sia proprio innamorato, ma intanto è qualcosa.” No.

Questa è la realtà dei fatti, oltre le questioni riguardanti l’illegittimità del governo, tenutosi a galla con i voti di Verdini, dei tentativi di Renzi di sembrare l’anti-sistema, cavalcando l’onda Trump e Brexit, che i circoli illuminati italiani continuano a non comprendere; del vergognoso salvataggio a spese dei risparmiatori di Banca Etruria e compagnia bella, delle bugie ripetute e della sana e genuina antipatia per quella faccia da culo, con quel fastidioso accento toscano ( per intenditori, Boris c’aveva visto lungo); oltre le teorie, le belle parole, gli spot dell’autostoppista, il mannequin challenge, i libri spediti a casa, il monopolio delle comparsate televisive e i monologhi sul futuro dei figli di tutta Italia, questo sarà il reale funzionamento della riforma, che cambierà la seconda parte della Costituzione, incidendo inevitabilmente anche sulla prima.

Senza troppe opinioni, giri di parole, e pippe mentali. Senza confondere, seppur ci sarebbe ancora molto da scrivere a riguardo, e scrivendo forse uno degli articoli più noiosi che reputo abbia mai scritto, ho provato a spiegare questo referendum. Un po’ per farlo capire meglio a chi non ha avuto la pazienza per farlo, un po’ per capirlo meglio anch’io ed aspettare il 5 Dicembre, quando toccherà, di nuovo, pensare a cosa fare per Capodanno.

Votate scontrosi.

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Se non fosse scontato

Se non fosse scontato,

che quello davanti a te è il mare.

Se non fosse già dato,

un consiglio per aiutare.

 

Se non fosse scontato,

quello che oggi abbiamo.

Se non avessimo dimenticato,

ciò che fino a ieri speravamo.

 

Se non fosse scontato,

dell’Estate il ritorno,

ogni sera diremmo,

oggi è stato un bel giorno.

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Je suis qui?

Era il 7 Gennaio del 2015. A colpi di Kalashnikov, degli individui con volto coperto ma documento d’identità appresso, risvegliavano con la morte i valori di libertà, che con l’indignazione mainstream tornavano a poter dire la loro, senza il rischio di doversi assumere quelle fastidiose conseguenze, che proprio al senso di libertà danno valore. Erano i giorni della satira per tutti, dell’offesa accettata, dell’insulto gratuito tollerato, del rispetto della mancanza di rispetto altrui, del siamo tutti liberi. Liberi di credere in ciò che vogliamo, di scrivere ciò che vogliamo, di dire ciò che vogliamo e di insultare chi e cosa vogliamo, di offenderci no. In quei giorni non ci si poteva offendere, era contro la libertà. Chi si offendeva era dannatamente retrogrado, era un ostacolo alla liberta d’espressione. Era la peste, il male assoluto, quell’essere bigotto… che dai, siamo nel 2016, ancora con ‘ste cose. Vuoi la tragedia, vuoi la brutale interruzione di dodici cammini, vuoi le lacrime, quelle vere, di fronte alle quali ogni discorso (socio-politico-economico-egocentrico-saccente-vanitoso) diventa fuori luogo; quel giorno molti di quelli che oggi parlano, tacquero, giustamente tacquero. Perché di fronte alle tragedie o si sa consolare, o si sa tacere.

Charlie Hebdo, è una rivista di satira (black humor, forse meglio) che prima dell’attentato non conoscevo. E che solo dopo averla conosciuta, ho capito perché non l’avessi  fatto prima. Un po’ come quelle persone in ufficio, all’università, a scuola, che vedi tutti i giorni ma con le quali non hai mai scambiato più di due parole, e che una volta fatto, capisci di non esserti perso un granché. Le copertine di Charlie Hebdo, sono forti, esagerate, provocatorie, a volte ignoranti e disgustose,  come quella sulla Trinità, con lo Spirito Santo raffigurato nell’ano del Figlio (ah, satira!), però hanno un qualcosa che le caratterizza e che, vista la miriade di sfaccettature che può avere la verità a seconda dei punti di vista dalla quale la si guarda, è degna anche di stima : la coerenza. Quelli di Charlie Hebdo, sono gli stessi che se non avessero dovuto piangere per la morte e la paura, probabilmente avrebbero ironizzato anche su quell’attentato. Sono gli stessi che avrebbero insultato i vari “je suis Charlie” con le loro foto profilo tricolore sfocate, dalle quali si intravedeva sullo sfondo uno spritz vista mare. Sono gli stessi per i quali si diceva che le matite non si spezzano, che bastava temperarle di nuovo. Gli stessi per cui ognuno è libero di dire ciò che vuole e io darei la mia vita affinché tu possa farlo. Gli stessi tollerati, difesi, idolatrati a martiri, in nome della libertà d’espressione.

E proprio qui sfugge il ragionamento, perché la libertà, per essere tale porta con sé una caratteristica, una peculiarità, tanto ovvia e banale, quanto imprescindibile: la libertà è libera. Se si difende la libertà, lo si fa in tutto o non lo si fa. Lo si fa quando è favorevole alle nostre idee, così quando è contraria. La libertà d’espressione, se si difende anche di fronte all’insulto -perché la moda del momento dice che sia giusto farlo- allora per coerenza va difesa e tollerata anche quando quell’insulto è rivolto a noi. Sennò si è medi, con medi pensieri e il medio è banderuola, presa dal vento.

Essere presi in giro, da l’idea di un qualcuno che si sposta in continuazione. Preso in giro: da qualche parte per strada, perché non ha mai preso una posizione. Deriso, proprio per questo. Chi prende posizione, viene criticato, giudicato, ma non può essere preso in giro, perché in giro non lo trovi, un posto in cui stare l’ha già scelto.

Per questo la prossima volta che sentiremo il bisogno di essere fortemente indignati, basterà fermarsi un attimo, anche solo una decina di minuti e chiedersi cosa realmente se ne pensa. Peraltro, seppur disgustosa come sempre, la vignetta di Charlie Hebdo fa satira (forse questa volta davvero) sul previsto solito magna-magna di italico orgoglio, al quale, ahinoi, siamo abituati. La ricostruzione dell’Aquila ne è un esempio. E basterebbe un occhio più attento e meno impulsivo, per capire che almeno una volta un messaggio veramente condivisibile è stato dato: non speculare su chi ha perso tutto. Perciò il senso d’indignazione profondo che provate a secondo dell’hashtag che va più in voga oggi, riversatelo nel domandarvi il perché, una scuola in cui erano stati spesi soldi pubblici per l’adeguamento alla resistenza sismica, crolla. Il perché gli appalti pubblici erano da anni vinti sempre dalle stesse due aziende. Il perché c’è sempre una storia che puzza, sempre un qualcosa che non è chiaro, sempre qualcosa che si sarebbe potuto evitare. Affinché non si debba più arrivare alla morte, per capire come si dovrebbe vivere.

 

Daje Amatrice, Accumoli, Arquata del Tronto!

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Resta

Non lasciar alle nuvole il privilegio di godersi il sole,

non lasciare a quelle ombre, la luce delle tue ore.

Sii più alto della foschia.

Più potente della tempesta.

Quando il mondo scappa impaurito,

tu resta!

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La stazione di Amsterdam

Io non so dove si andrà,
e se racconteremo,
qualcosa che è stato realtà,
o quello che domani faremo.

Non so neanche se ci siamo scelti,
oppure soltanto trovati.
Se abbiam deciso di esser noi stessi,
per non essere solo innamorati.

So che averti al mattino vicino,
è la più bona bottiglia de vino.
Che quando te vedo me vie’ er pensiero,
se so’ matto o se è tutto vero.

Che fatte ride co ‘na battuta,
è la serata più bella vissuta.
E ancora me chiedo come fai a capi’,
tutti i vorrei che devo ancora di’.

Ma se mai un giorno per chissà quale motivazione,
te ne volessi anda’,
io tornerei all’uscita della stazione di Amsterdam,
tu, nun me fa’ aspetta’.

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Non ho votato Marino. Lo voterei ora.

Tanto alla fine vincono loro. Vince chi comanda, vince chi mente, vince chi ha sempre vinto. Davvero pensate che il problema di Roma sia Marino?! Siate onesti con voi stessi, davvero lo pensate?!  Le buche per strada? Ma quelle ricordo c’erano anche quando avevo 16 anni. Marino non lo conoscevo, eppure quando giravo con il mio Scarabeo 50, le botte le sentivo tutte. I trasporti pubblici vergognosi?! Eppure prima ancora di avere il motorino, li prendevo. Non c’era una volta in
cui non imprecavo il mondo per un ritardo, la puzza, la calca o anche solo la maleducazione del prossimo. Il degrado?! Le scene pietose di una città allo sbando erano all’ordine del giorno, solo che allora non c’erano gli Iphone, i video, gli hashtag, Facebook, Twitter. Ah, neanche Marino.

Quindi cos’è questo accanimento?! Questa insofferenza?! Davvero ancora non capite che se l’attacco mediatico è così forte, significa che forse la strada è quella giusta? Oppure la questione è il solito interesse personale, la solita incapacità di sacrificare anche solo la libertà di parcheggiare in doppia fila. Della serie speriamo che le cose cambino, ma senza cambiare noi.

Io non ho votato Marino, ma probabilmente lo voterei ora. Ero fermamente convinto che il sindaco di Roma, sarebbe dovuto essere romano. Avrebbe dovuto avvertire le sensazioni della città con un’empatia straordinaria. Ora ho qualche dubbio in più.
Perché il romano tende sempre a chiudere un occhio, tende a lasciare andare, tende alla superficialità. È natura e cultura. Io stesso riconosco di esserlo, chi può esimersi dal dirlo?! È stata per secoli la nostra bellezza, ma nei contesti odierni, sta sempre più diventando la nostra croce.

 
Non nascondiamoci, Roma è questo. Roma è la città in cui chi fa rispettare le regole è “pesante” e chi non è furbo è per forza un coglione.

 
Bisognerebbe leggere cosa ha fatto Marino per questa città, prima di gioire per le sue dimissioni. Marino non è un politico, eppure stava facendo quello che i decantati politici non hanno fatto per Roma in decenni. Il primo giorno in cui si è insediato ha chiamato la Guardia di Finanza consegnando i documenti dei 5 anni precedenti il suo insediamento (quelli di Alemanno e Mafia Capitale),  ha denunciato i Vigili urbani assenti ingiustificati a Capodanno, ha chiuso Malagrotta dopo 30 anni dando a Roma la possibilità di accedere nuovamente ai fondi europei ed identificando un nuovo centro per i rifiuti a Rocca Cencia, ha riaperto i cantieri della Metro C, ha cacciato l’Amministratore Delegato di Ama (poi arrestato con Mafia Capitale), ha spostato tutti gli assunti in ATAC da Alemanno, che rubavano uno stipendio in ufficio, a fare i controllori,  ha tolto quei camion baracconi indecenti dal centro storico, ha pedonalizzato la via più bella di Roma, la stessa cosa che se fosse stata fatta a Parigi o Londra, avremmo detto “perchè a Roma no?!”, ha riportato in attivo il Teatro dell’Opera, ha stabilito nuove leggi più restrittive per gli appalti pubblici, ha messo il GPS alle spazzatrici che prima non avevano neanche un percorso da seguire, ha ristrutturato molti dei monumenti più importanti di Roma grazie alla capacità di attrarre investimenti dai privati, messo in programma il rifacimento delle maggiori arterie stradali scoprendo, come nel caso di Via Marsala, che non c’era neanche l’allacciatura alla rete fognaria, sta pagando un debito che non ha creato certamente lui e si potrebbe continuare a lungo. Di certo sarebbe una lista più lunga di quella in cui potreste scrivere una cena con la moglie e un funerale di un boss, per cui peraltro, hanno pagato quelli che avrebbero dovuto pagare meno: Marino e il pilota dell’elicottero.

Le domande non vanno rivolte ai giornalisti, lobbisti e politici di ogni schieramento. È chiaro l’attacco congiunto, chiara la facilità di un’unione politica quando c’è da abbattere chi prova a fare il bene comune, ostacolando chi ha sempre difeso, solo e soltanto quello individuale.
Lo stesso bene individuale che vi porterebbe a votare nuovamente Alemanno o ad accogliere Gabrielli (è questa la strada) con fanfare e trombe. D’altronde lo vuole Matteo, esperto di poltrone non elette.
Sarebbe più utile utilizzare l’ossigeno per ruttare piuttosto che fare a questi personaggi l’ennesima domanda, per ricevere poi, l’ennesima, finta, calcolata risposta. Loro sono iene. E le iene, infami e vili, si gettano sulle carcasse. Il che non le renderebbe peggiori di altri animali, se non fosse che quando lo fanno, ridono. Ridono sbranando un corpo morto, ridono perché sanno che pur non cacciando, a fine giornata mangeranno. Quella carcassa è Roma. Signori miei.

Perché per fare del bene bisogna fare quello che è giusto, non quello che conviene. Senza se e senza ma. Ma il bene comune, spesso non coincide con quello personale. È solo allora che si capisce chi ama la sua città o solo la sua casa. È solo allora che si vede chi davvero è disposto a rinunciare ad un privilegio per permettere alla propria città di migliorarsi. Non sarà più così. Marino si è dimesso, scivolando su una questione sulla quale, onestamente, non sarebbe caduto neanche un bambino. Dimostrandone forse proprio l’ingenuità.
Quella che resta però, è l’immagine di una profonda indignazione generale, sempre mainstream, scatenatasi da ogni palazzo di una città in cui la colpa è sempre dell’altro. Magari se la stessa indignazione l’avessimo avuta per le tagliole in parlamento, la compravendita dei parlamentari, i 3 premier consecutivi non eletti, l’assoggettamento alle politiche europee, le leggi salva amico dell’amico e gli appalti truccati, forse ora staremmo tutti meglio. Ma si sa, indignarsi costa fatica ed impegno, poi non ha molto senso farlo se non va di moda. Meglio aspettare che la massa arrivi, basterà aprire bocca e seguire la corrente. E ancora una volta saremo riusciti ad evitare il rischio di cambiare.

C’è una canzone di Antonello Venditti, si chiama “Sora Rosa”. Dopo che avete finito di festeggiare quella che non capite essere l’ennesima sconfitta di Roma, magari ascoltatela, finisce dicendo: “Annamo via, tenemose pe’ mano, c’è solo questo de vero pe’ chi spera, che forse un giorno chi magna troppo adesso, possa sputa’ le ossa che so’ sante.” Speramo bene Roma, speramo bene.

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