Je suis qui?
di Mapperò
Era il 7 Gennaio del 2015. A colpi di Kalashnikov, degli individui con volto coperto ma documento d’identità appresso, risvegliavano con la morte i valori di libertà, che con l’indignazione mainstream tornavano a poter dire la loro, senza il rischio di doversi assumere quelle fastidiose conseguenze, che proprio al senso di libertà danno valore. Erano i giorni della satira per tutti, dell’offesa accettata, dell’insulto gratuito tollerato, del rispetto della mancanza di rispetto altrui, del siamo tutti liberi. Liberi di credere in ciò che vogliamo, di scrivere ciò che vogliamo, di dire ciò che vogliamo e di insultare chi e cosa vogliamo, di offenderci no. In quei giorni non ci si poteva offendere, era contro la libertà. Chi si offendeva era dannatamente retrogrado, era un ostacolo alla liberta d’espressione. Era la peste, il male assoluto, quell’essere bigotto… che dai, siamo nel 2016, ancora con ‘ste cose. Vuoi la tragedia, vuoi la brutale interruzione di dodici cammini, vuoi le lacrime, quelle vere, di fronte alle quali ogni discorso (socio-politico-economico-egocentrico-saccente-vanitoso) diventa fuori luogo; quel giorno molti di quelli che oggi parlano, tacquero, giustamente tacquero. Perché di fronte alle tragedie o si sa consolare, o si sa tacere.
Charlie Hebdo, è una rivista di satira (black humor, forse meglio) che prima dell’attentato non conoscevo. E che solo dopo averla conosciuta, ho capito perché non l’avessi fatto prima. Un po’ come quelle persone in ufficio, all’università, a scuola, che vedi tutti i giorni ma con le quali non hai mai scambiato più di due parole, e che una volta fatto, capisci di non esserti perso un granché. Le copertine di Charlie Hebdo, sono forti, esagerate, provocatorie, a volte ignoranti e disgustose, come quella sulla Trinità, con lo Spirito Santo raffigurato nell’ano del Figlio (ah, satira!), però hanno un qualcosa che le caratterizza e che, vista la miriade di sfaccettature che può avere la verità a seconda dei punti di vista dalla quale la si guarda, è degna anche di stima : la coerenza. Quelli di Charlie Hebdo, sono gli stessi che se non avessero dovuto piangere per la morte e la paura, probabilmente avrebbero ironizzato anche su quell’attentato. Sono gli stessi che avrebbero insultato i vari “je suis Charlie” con le loro foto profilo tricolore sfocate, dalle quali si intravedeva sullo sfondo uno spritz vista mare. Sono gli stessi per i quali si diceva che le matite non si spezzano, che bastava temperarle di nuovo. Gli stessi per cui ognuno è libero di dire ciò che vuole e io darei la mia vita affinché tu possa farlo. Gli stessi tollerati, difesi, idolatrati a martiri, in nome della libertà d’espressione.
E proprio qui sfugge il ragionamento, perché la libertà, per essere tale porta con sé una caratteristica, una peculiarità, tanto ovvia e banale, quanto imprescindibile: la libertà è libera. Se si difende la libertà, lo si fa in tutto o non lo si fa. Lo si fa quando è favorevole alle nostre idee, così quando è contraria. La libertà d’espressione, se si difende anche di fronte all’insulto -perché la moda del momento dice che sia giusto farlo- allora per coerenza va difesa e tollerata anche quando quell’insulto è rivolto a noi. Sennò si è medi, con medi pensieri e il medio è banderuola, presa dal vento.
Essere presi in giro, da l’idea di un qualcuno che si sposta in continuazione. Preso in giro: da qualche parte per strada, perché non ha mai preso una posizione. Deriso, proprio per questo. Chi prende posizione, viene criticato, giudicato, ma non può essere preso in giro, perché in giro non lo trovi, un posto in cui stare l’ha già scelto.
Per questo la prossima volta che sentiremo il bisogno di essere fortemente indignati, basterà fermarsi un attimo, anche solo una decina di minuti e chiedersi cosa realmente se ne pensa. Peraltro, seppur disgustosa come sempre, la vignetta di Charlie Hebdo fa satira (forse questa volta davvero) sul previsto solito magna-magna di italico orgoglio, al quale, ahinoi, siamo abituati. La ricostruzione dell’Aquila ne è un esempio. E basterebbe un occhio più attento e meno impulsivo, per capire che almeno una volta un messaggio veramente condivisibile è stato dato: non speculare su chi ha perso tutto. Perciò il senso d’indignazione profondo che provate a secondo dell’hashtag che va più in voga oggi, riversatelo nel domandarvi il perché, una scuola in cui erano stati spesi soldi pubblici per l’adeguamento alla resistenza sismica, crolla. Il perché gli appalti pubblici erano da anni vinti sempre dalle stesse due aziende. Il perché c’è sempre una storia che puzza, sempre un qualcosa che non è chiaro, sempre qualcosa che si sarebbe potuto evitare. Affinché non si debba più arrivare alla morte, per capire come si dovrebbe vivere.
Daje Amatrice, Accumoli, Arquata del Tronto!