Mapperò

NON SI DICE

La bellezza che resta

Crollino i ponti e le loro brutture,
che dei morti fan martiri,
del futuro paure.
Crolli lo stato, la sua economia,
fautrice volgare,
del morte tua, vita mia.
Crollino gli affetti, che han bisogno di aperitivi,
per scoprir che lontani,
lo si è anche da vivi.
Crolli il lavoro che usura decenni,
e che traduce la vita,
in rincorse perenni.
Crolli il commercio, il prodotto interno lordo,
e con loro, la sacra produzione.
Tutto ciò che arreda,
questa grande prigione.
Crollassimo noi, le nostre mediocrità,
tutto ciò a cui ci aggrappiamo,
e che chiamiamo libertà.
Crolli il progetto che non è di Dio,
crolli pure la salvezza,
che mi procuro io.
Crolli forte.
Crolli potente.
Così che nessuno,
possa far finta di niente.
Perché tra le macerie qualcosa di bello resterà,
e solo quella che resta,
sarà la bellezza, che il mondo salverà.

Quando rotola un pallone

Rotola, rotola sul prato,
che mentre rotoli me so’ innamorato.
Rotoli da sempre, da quando che me ricordo qualcosa,
ce stavi te accanto a me,
e il mondo diventava ’n’ altra cosa.
Le tedesche sotto casa,
le partite nei viali,
poi i campi de terra,
mo quelli d’erba artificiali.
De tutte le volte che ho creduto fosse vero,
che un giorno all’improvviso,
avrei toccato quel terreno.
Che per me era l’Olimpico, pe’ un altro San Siro,
e tutti c’avemo sperato,
senza che se piamo in giro.
C’ho sperato da bambino,
e da scemo spero ancora,
perché il gusto che c’ho adesso,
è sempre quello che ebbi allora.
Che te fa senti’ riuscito,
che te fa senti’ nel mondo,
pe’ ‘na palla data giusta,
pe’ ’n go’ all’ultimo secondo.
È il bambino che c’è in me,
che non pensa sia finita,
che il pallone è il primo “per sempre”
che ho detto nella vita.
Chiedilo all’infortunato,
qual è il suo dolore,
se il male fisico,
o il non pote’ core.
Chiedilo ad un bambino,
che non vo’ sali’ pe’ cena.
Che la pasta ce sta sempre,
“ah ma’ magna’ serena.”
Chiedilo a tutti noi,
che ogni volta è un’emozione,
che non c’è niente da spiega’,
quando rotola un pallone.

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Il tempo e la fine degli anni ’90

Il tempo, solo il tempo darà ragione, a chi oggi la cerca in questo teatro dell’assurdo, dove è permesso offendere, ma non restarsene offesi, demoralizzati, delusi, schifati. É il tempo l’unica arma che prevarrà, l’unico strumento che, inviso alle democratiche dittature che oggi qualcuno vanta di difendere, si imporrà con tutta la propria prepotenza, la propria democrazia e la propria giustizia, di essere davvero uguale per tutti.

Non è aver impedito un governo scomodo, non è aver reso instabile un paese, già di per sé traballante quanto un sabato sera, non è l’inammissibile giudizio di direzione politica del Presidente della Repubblica, è che Tu Popolo non puoi decidere per cose più grandi di te. É atroce, cinica, crudele la sentenza, ma questa è, nient’altro. 

Ed è a questo punto che viene da soffermarsi su un aspetto triste e demoralizzante: chi difende Mattarella, chi ne difende il ruolo istituzionale, chi ostenta l’ennesimo hashtag palesando la propria vicinanza al Presidente, urlando ai propri follower, un tanto compiaciuto quanto stravagante “Io sto con mattarella”, perde la grandiosa opportunità di domandarsi: “ma Mattarella sta con me?” 

Se l’incubo di un governo populista, ignorante, incompetente, burino, cafone, pericoloso e stranamente votato, è finalmente svanito permettendovi di dormire notti serene, al massimo un po’ agitate per il finale di quella serie tv, che dà un tocco di nuovo intellettualismo, una volta svegli resta l’incubo del come tutto ciò sia avvenuto. E di quel come ne siamo vittime tutti. 

Perché se il come può essere tollerato, a seconda del destinatario, allora siete fuori strada, fuori luogo, fuori dal vostro tempo. Fate parte dei mediocri, di quelli che chiudono un occhio e ridono sgraziatamente, quando l’ingiustizia li favorisce, sempre pronti poi a dichiararsi fraintesi, quando il tempo torna ad aggiustare il tiro.

Non c’è da star felici certo, ma neanche preoccupati. Ciò che è appena accaduto, è il canto del cigno degli anni ’90, di un sistema di potere consolidato, negli uffici pubblici, dove chi sa già di avere la pensione, non sa inviare un’email; nelle televisioni, nelle radio, nei giornali, dove fa carriera chi rinnega l’etica della propria professione; nelle aziende private, dove la precarietà del lavoratore è un qualcosa a cui brindare; nelle strade, dove la furbizia resta una virtù. É un sistema con le spalle al muro, che ha dovuto scoprire tutte le proprie carte, mostrandosi per ciò che è sempre stato. É il sistema che è stato criticato, odiato, combattuto, fin quando, che lo accettiate o meno, un volgare comico, con un gruppo di ignoranti cittadini, è riuscito a colpirlo nei suoi punti vitali, dando a chi ha vera e sana passione politica, nuovamente la voglia di avere un’idea, seppur contraria, e a chi ha sempre e solo avuto interessi politici, un nuovo lavoro da cercarsi.

Se foste solo un pizzico meno impegnati a fare ironia con i vostri meme, e a difendere, per pigrizia, posizioni di puro pregiudizio ideologico, vi accorgereste, ci accorgeremmo, che siamo vicini, e che finalmente in Italia, si è tornati ad avere una politica, un dibattito, un sentimento, che dà al tempo una nuova speranza e agli anni ’90 un’unica certezza.

Come quella che i bambini, o dicono la verità, o te la fanno dire.

 

 

 

Roma (tratto da Quasi trent’anni)

Io l’ho vista in tutte le sue forme, e l’ho amata in tutti i suoi difetti. L’ho difesa quando veniva criticata per le sue mancanze e la sua strafottenza, per poi rimproverarla in disparte, quando mi ritrovavo di notte a camminarci insieme, mano nella mano. L’ho ringraziata quando mi faceva sentire a casa, quando mentre tutto andava storto, riusciva a tirarmi su con la semplice genialità di una battuta, che la rendeva unica. L’ho disprezzata quando persa nella sua vanità, si compiaceva con la superbia di chi sa di avere tutto, perché tutto le è dovuto. Con quella superficiale arroganza di chi si vanta del passato e non si cura più del proprio presente. L’ho sognata nei racconti della sua vita e l’ho immaginata nella sua infanzia tra le colonne antiche, nella sua adolescenza tra i rioni. L’ho snobbata paragonandola a frivole appariscenze di città senza storia, esaltanti in quell’istante, deprimenti in quello dopo. L’ho ammirata in silenzio, estasiato dalla sua bellezza mentre truccata dal primo sole primaverile, tornava a vivere spogliandosi di quel cupo Inverno che non le apparteneva. L’ho salutata da lontano, come si saluta un amore a cui non vuoi dire addio, quando dovetti lasciarla per trovare la mia strada, pregando affinché davvero alla fine dei conti, tutte le strade mi avrebbero riportato da lei. L’ho sentita casa, quando mi perdevo nei suoi vicoli. L’ho sentita vita nel Tevere in piena, l’ho sentita poesia in un mercato rionale. L’ho vista genio in una battuta e sregolatezza in un coltello sporco di sangue. L’ho ascoltata nelle canzoni di Gabriella Ferri, di Alvaro Amici, di Franco Califano. L’ho conosciuta nei film di Alberto Sordi e Aldo Fabrizi. L’ho capita nelle “olive greche” di Mario Brega, nel “cavaliere nero” di Gigi Proietti, nel “fregaje ‘n posacenere” di Angelo Bernabucci, nel “cargo battente bandiera liberiana” di un film di Verdone e nel Pasquino interpretato da Nino Manfredi. L’ho vista impazzire di gioia per l’elezione del Papa e imprecare i santi per una buca sul Lungotevere. L’ho vista rinnegata dai suoi stessi figli e sfruttata come una puttana, da chi doveva governarla e difenderla. L’ho vista maestosa nei suoi monumenti e umile nelle sue periferie. L’ho vista anche nella sua volgarità, fatta preda dell’insolenza di chi l’ha fatta sempre un po’ vergognare. L’ho vista piangere nel non sentirsi più apprezzata, ricoperta dai “non se può più vive qui”, dai “nun funziona niente”, dai “è finita ‘sta città”. L’ho anche detestata alla fermata di un autobus o bloccato nel traffico. Ma poi l’ho riconosciuta ridere, nel verde fiorire di Villa Pamphili, nell’allegria di un bicchiere di troppo con gli amici di sempre e nei baci rubati al buio dei vicoli di Piazza Navona. L’ho avvertita esageratamente severa nell’insicurezza di dover mostrare la propria autorità, ma anche profondamente distesa, nel suo prendere la vita sempre un po’ alla leggera. L’ho vista atteggiarsi corteggiata dai suoi innamorati e fiera in posa per le foto dei turisti, mentre guardandoli pensavo : “Se sazieranno solo a st’a gguardà!”.

 

Una volta, avrò avuto circa quindici anni, mi trovai a passare per Piazza Venezia, la piazza dove si trova l’Altare della Patria, detta anche “macchina da scrivere” per la sua forma che evoca una Olivetti vecchio stampo. Avevo lo Scarabeo, il classico motorino da pischello a Roma, se la combatteva con l’Honda SH, ma in fondo ha sempre dominato il primo. Stavo con Tommaso, come sempre in due, anche se per le leggi di allora non si poteva. Passando per la piazza, ci imbattemmo nel “pizzardone”, il vigile che in piedi su di una pedana, situata al centro della piazza, dirige iltraffico romano, in un’armonia di gesti da direttore d’orchestra. A Roma, il pizzardone è un’istituzione, venne anche abolito per un periodo, ma fortunatamente fu ripristinato in seguito. La mia passione per Roma mi impose di fermarmi e scattare delle foto. In quel periodo, prima dell’avvento degli ultra cellulari megaforti, ero solito portare con me una macchinetta fotografica. Scattai diverse foto, e mentre mi accingevo a ripartire, vidi che il pizzardone si accorse di me, pensai: “ecco fatto, ora mi fa anche la multa perché siamo in due”, cercai di mettere in moto velocemente ed andarmene, ma il suo collega, che stava dietro di me, riuscì a fermarci prendendo Tommaso per un braccio. Pensai: “ecco fatto, beccato pure mentre volevamo scappare, multa sicura!” Il vigile si avvicinò e con aria imbarazzata mi chiese:

«Scusa, hai fatto delle foto al collega?»
«Sì, non potevo?»
«Sì certo, però mi ha chiesto di dirti se puoi fargliele avere.»
Bella, semplice e spensierata. Come Beatrice, così è Roma.
Gliele inviai per posta, visto che le e-mail non erano ancora così sviluppate, ma prima di farlo inserii un bigliettino con scritto: “Sempre vigili, Mai urbani!”
Perché non si può essere figli di Roma, senza un po’ di goliardia.

 

Tratto da Quasi trent’anni.

La notte diversa

Cala la notte diversa, da tutte le altre notti,

è la notte in cui anche tu, Madre, imparerai a chiudere gli occhi.

Dovrai lasciarmi dimostrare la verità,

prendendo tante botte che Dio solo lo sa.

Mi accompagnerai soffrendo fin quando non ne potrò più,

penserai, era meglio, se non mi fossi chiamato Gesù.

 

Avrai gli occhi più grandi di sempre,

come quando io ti insegnavo, un amore soltanto umano,

ma che non ti avrebbe lasciato la mano.

Ti vedrò compiere il tuo dovere,

stando in disparte senza parlare.

Come ti diedi il mio grembo puro,

senza sapere cos’altro fare.

 

Ora ricorda le mie parole, quando dicevo ritornerò,

serviranno a darti sollievo, nelle notti in cui non ci sarò.

 

Sarà bello vederti tornare e sapere che tutto hai compiuto,

perdona Figlio, se a vedere quel male, pregherò che nulla fosse accaduto.

 

Gesu05

Un uomo moderno


Piacere piacere piacere,
male del mio tempo.
Piacere piacere piacere,
anche se non ti fa contento.
Piacere piacere piacere,
illusoria emozione.
Piacere piacere piacere,
inquieto bisogno di distrazione.
Piacere piacere piacere,
per riempire di vita le ore,
che passano lente,
negando il dolore.
Piacere piacere piacere,
a cui tutto hai donato,
assassino gagliardo,
di cui ti sei innamorato.
Piacere piacere piacere,
inganno amato,
che non dai indietro niente,
ora che tutto ti ho dato.

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Lo sforzo della vita

È importante che io torni a credere al rumore del mare,

che da solo abbia la forza di salvare,

me e te che non ci parliamo più

che limitiamo lo sguardo al colore dei tuoi occhi blu.

C’è bisogno che sia io a ridarti le parole,

perché in me son custodite

insieme al respiro migliore,

che facemmo privi di quell’assurda volontà,

di sentirsi liberi, ma dipendenti dalla libertà.

È importante che lo faccia e che anche tu capisca,

perché quando non ce la farò,

sia tu quello che resista.

Perché un senso dovrà starci,

nello sforzo della vita,

che non sia solo goderne,

prima che vada restituita.

Genova- estate alle porte

Politica Potëmkin

Siamo alle solite. Passa il tempo, cambia la gente -canta un noto coro in Curva Sud- ma le storie son sempre quelle. È iniziata la campagna elettorale, proprio lì dove era finita. Più che iniziata, si può dire, è ripresa. Sì, perché un qualcosa che inizia, presenta in qualche modo dei tratti quantomeno diversi, se non proprio innovativi, nuovi, mai sperimentati. E invece.

E invece, nel contesto di un’Italia talmente in confusione, da arrivare a convincersi che forse quella confusione è proprio la sua forma naturale, quella esatta, quella propria dell’italica Repubblica, siamo costretti allo stesso, estenuante, patetico teatrino. Una sorta di Corazzata Potëmkin, ne Il secondo tragico Fantozzi, del compianto Paolo Villaggio, dove il direttore, preso dall’ossessiva volontà di trasmettere il proprio gusto, costringeva, senza accorgersi della loro totale indifferenza, i poveri impiegati alla visione di quello che sarà anche un capolavoro, ma che francamente ha rotto i coglioni. Ora, se al direttore sostituiamo il politico, agli impiegati i cittadini e al film i programmi televisivi, otteniamo la fotografia esatta dell’ennesimo teatrino da campagna elettorale.

È il teatrino del dito puntato, della colpa agli altri, dell’importante è aver ragione. Il teatrino della mia idea migliore della tua, della superba sfrontatezza con cui ci si da per vincitori, attuando un giochetto psicologico in grado di convincere, ingannando, quella zona di indecisi, e che dimostra sin da subito la natura dell’intenzione. È il teatrino che stanca, quello che più di tutto fa pensare al cittadino, ormai mero spettatore, che non cambierà nulla, perché, di nuovo, già nulla è cambiato. Se le tematiche son le stesse, le facce pure, che cambino almeno gli atteggiamenti, perché in fondo, che guerra stiamo facendo? Qual è lo scopo? Chi più, chi meno, siamo tutti colpevoli. Chi più, chi meno, in questa guerra civile senza nemici, tutti abbiamo sparato il nostro colpo. Ci siamo distratti dallo scopo principale della politica, cioè di amministrare la cosa pubblica, sostituendo, questo semplice principio, con l’ideale per cui la cosa pubblica va certo amministrata, ma come diciamo noi. Costringendoci inesorabilmente a delle lotte interne, che fecero crollare l’Impero Romano, figurarsi una Repubblica con Razzi senatore.

La voce nuova, invece, non è una riforma, non è un nuovo sistema di tassazione fiscale, non è una nuova strategia europea. La voce nuova, quella che manca, è la comunione di intenti. È il fregarsene della paternità di un’idea, se quell’idea funziona per il bene comune. È pensare al “rivale” politico, non come un nemico, ma come primo filtro per capire se la nostra proposta valga la pena di essere considerata. Non abbiamo bisogno di programmi elettorali, slogan, idee illuminanti. Non ci crediamo più. Abbiamo imparato a capirlo nelle assenze degli amici scappati all’estero, che quelle sono chiacchiere da bar. Quello che serve è avere una direzione, che non sia contraria all’altro, ma a favore. È ridicolo pensare che si possa sistemare un paese da soli, senza prendere in considerazione il fatto più direttamente visibile: che la nostra giornata è fatta di altri. Altre persone, altra gente, altre esperienze, altre priorità. Nello stupido e superbo sentimento di credersi esaustivi, falliscono tutti i programmi elettorali e con loro, chi li rappresenta. Il sistema democratico si mantiene in vita non sull’idea totalmente sbagliata che la maggioranza ha sempre ragione, – lo scrittore Heinlein a riguardo diceva: “la democrazia si basa sull’idea che un milione di uomini sia più saggio di un uomo solo. Deve essermi sfuggito qualcosa”- ma sulla consapevolezza dell’altro, sulla responsabilità che le nostre azioni abbiano delle conseguenze sull’altro, e che la nostra libertà finisce dove inizia quella dell’altro.

Siamo condannati, forse per il bene, a fare le cose insieme perché qualcosa avvenga. Va capito nella vita di tutti i giorni, nei nostri progressi personali, negli obiettivi che preghiamo di raggiungere. Va capito nella politica, che senza l’aiuto dell’altro non ce la faremo. O si raggiunge questa consapevolezza o tutto resterà sempre così come ora è: un mercato nel quale tutti urlano convinti di avere la carne migliore, dove l’unico scopo è di venderla, non di dar da mangiare a chi ha fame.

 

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Ubriacati di virtù

Ce vole tanto pe’ ubriacasse de virtù,

più de quanto ce ne voglia col vino.

Pe’ ubriacasse de virtù,

er bar n’è mai vicino.

 

Pe’ ubriacasse de virtù ce vuole fede e speranza,

un po’ come pe’ ubriacasse de vino,

ce vonno li sordi e puro la panza.

 

Ma la sbornia che te sale,

n’è de certo la stessa cosa,

t’accorgi che l’anima tua vale,

e che je va d’esse ambiziosa.

 

Che c’avrà puro mancanze e ‘n se sa quanti difetti,

ma chi l’ha detto che pe’ esse’ giusti,

tocca esse’ anche perfetti.

 

Mentre er vino è ‘n amicone,

che nun è poi ‘n vero amico.

Perché in fondo chi è amico de tutti,

lo fa solo pe’ esse fico.

 

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L’amico gentile

C’era ‘na volta ‘n amico fidato,

gentile, cordiale,

e sempre educato.

 

C’aveva un amico un po’ incasinato,

cercava ‘na svolta,

ma stava bello impicciato.

 

Je disse l’amico, quello cordiale:

“qua sentite a casa, puoi bere e mangiare.

E se te dovesse servi’ un aiuto,

tu chiamame subito che pe’ ste cose c’ho er fiuto.”

 

Così l’amico un po’ trasandato,

cercando cercando,

qualcosa ha trovato.

 

Richiama l’amico -quello gentile-

je dice: “quarcosa ho trovato,

ma stammi a sentire.

 

Me servirebbero un paro de piotte,

così pe’ inizia, sennò è tutto a monte.”

 

Je risponde l’amico, quello della mano,

“nun te preoccupa’,

che qualcos’altro trovamo.”

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