Roma (tratto da Quasi trent’anni)
Io l’ho vista in tutte le sue forme, e l’ho amata in tutti i suoi difetti. L’ho difesa quando veniva criticata per le sue mancanze e la sua strafottenza, per poi rimproverarla in disparte, quando mi ritrovavo di notte a camminarci insieme, mano nella mano. L’ho ringraziata quando mi faceva sentire a casa, quando mentre tutto andava storto, riusciva a tirarmi su con la semplice genialità di una battuta, che la rendeva unica. L’ho disprezzata quando persa nella sua vanità, si compiaceva con la superbia di chi sa di avere tutto, perché tutto le è dovuto. Con quella superficiale arroganza di chi si vanta del passato e non si cura più del proprio presente. L’ho sognata nei racconti della sua vita e l’ho immaginata nella sua infanzia tra le colonne antiche, nella sua adolescenza tra i rioni. L’ho snobbata paragonandola a frivole appariscenze di città senza storia, esaltanti in quell’istante, deprimenti in quello dopo. L’ho ammirata in silenzio, estasiato dalla sua bellezza mentre truccata dal primo sole primaverile, tornava a vivere spogliandosi di quel cupo Inverno che non le apparteneva. L’ho salutata da lontano, come si saluta un amore a cui non vuoi dire addio, quando dovetti lasciarla per trovare la mia strada, pregando affinché davvero alla fine dei conti, tutte le strade mi avrebbero riportato da lei. L’ho sentita casa, quando mi perdevo nei suoi vicoli. L’ho sentita vita nel Tevere in piena, l’ho sentita poesia in un mercato rionale. L’ho vista genio in una battuta e sregolatezza in un coltello sporco di sangue. L’ho ascoltata nelle canzoni di Gabriella Ferri, di Alvaro Amici, di Franco Califano. L’ho conosciuta nei film di Alberto Sordi e Aldo Fabrizi. L’ho capita nelle “olive greche” di Mario Brega, nel “cavaliere nero” di Gigi Proietti, nel “fregaje ‘n posacenere” di Angelo Bernabucci, nel “cargo battente bandiera liberiana” di un film di Verdone e nel Pasquino interpretato da Nino Manfredi. L’ho vista impazzire di gioia per l’elezione del Papa e imprecare i santi per una buca sul Lungotevere. L’ho vista rinnegata dai suoi stessi figli e sfruttata come una puttana, da chi doveva governarla e difenderla. L’ho vista maestosa nei suoi monumenti e umile nelle sue periferie. L’ho vista anche nella sua volgarità, fatta preda dell’insolenza di chi l’ha fatta sempre un po’ vergognare. L’ho vista piangere nel non sentirsi più apprezzata, ricoperta dai “non se può più vive qui”, dai “nun funziona niente”, dai “è finita ‘sta città”. L’ho anche detestata alla fermata di un autobus o bloccato nel traffico. Ma poi l’ho riconosciuta ridere, nel verde fiorire di Villa Pamphili, nell’allegria di un bicchiere di troppo con gli amici di sempre e nei baci rubati al buio dei vicoli di Piazza Navona. L’ho avvertita esageratamente severa nell’insicurezza di dover mostrare la propria autorità, ma anche profondamente distesa, nel suo prendere la vita sempre un po’ alla leggera. L’ho vista atteggiarsi corteggiata dai suoi innamorati e fiera in posa per le foto dei turisti, mentre guardandoli pensavo : “Se sazieranno solo a st’a gguardà!”.
Una volta, avrò avuto circa quindici anni, mi trovai a passare per Piazza Venezia, la piazza dove si trova l’Altare della Patria, detta anche “macchina da scrivere” per la sua forma che evoca una Olivetti vecchio stampo. Avevo lo Scarabeo, il classico motorino da pischello a Roma, se la combatteva con l’Honda SH, ma in fondo ha sempre dominato il primo. Stavo con Tommaso, come sempre in due, anche se per le leggi di allora non si poteva. Passando per la piazza, ci imbattemmo nel “pizzardone”, il vigile che in piedi su di una pedana, situata al centro della piazza, dirige iltraffico romano, in un’armonia di gesti da direttore d’orchestra. A Roma, il pizzardone è un’istituzione, venne anche abolito per un periodo, ma fortunatamente fu ripristinato in seguito. La mia passione per Roma mi impose di fermarmi e scattare delle foto. In quel periodo, prima dell’avvento degli ultra cellulari megaforti, ero solito portare con me una macchinetta fotografica. Scattai diverse foto, e mentre mi accingevo a ripartire, vidi che il pizzardone si accorse di me, pensai: “ecco fatto, ora mi fa anche la multa perché siamo in due”, cercai di mettere in moto velocemente ed andarmene, ma il suo collega, che stava dietro di me, riuscì a fermarci prendendo Tommaso per un braccio. Pensai: “ecco fatto, beccato pure mentre volevamo scappare, multa sicura!” Il vigile si avvicinò e con aria imbarazzata mi chiese:
«Scusa, hai fatto delle foto al collega?»
«Sì, non potevo?»
«Sì certo, però mi ha chiesto di dirti se puoi fargliele avere.»
Bella, semplice e spensierata. Come Beatrice, così è Roma.
Gliele inviai per posta, visto che le e-mail non erano ancora così sviluppate, ma prima di farlo inserii un bigliettino con scritto: “Sempre vigili, Mai urbani!”
Perché non si può essere figli di Roma, senza un po’ di goliardia.
Tratto da Quasi trent’anni.